Siamo il logos. Siamo il suo respiro. Siamo la sua Parola vivente. Siamo tutto ciò che Dio desidera che noi siamo. Cristo è così umile che si adatta al nostro pensare e noi nel nostro incedere superbo, non consideriamo per nulla la grandezza della sua umiltà. Nella nostra piccolezza Cristo rivela la sua sapienza infinita.
A scuola, alle elementari, io sedevo sempre al primo banco. Mi piaceva intingere il pennino nel calamaio. Lo zuppavo tutto, tanto da farlo gocciolare sul sussidiario. La carta assorbente faceva il resto. La palestra era il cortile, circondato da siepi e da maestosi pini. Nel tempo della ricreazione ci nascondevamo tutti dietro i loro tronchi, non solo per i giochi. Io chiedevo spesso a mio padre una monetina. Mi serviva per infilarla nel jukebox. M’incantavo come potessero uscire le note da quel mostro di macchina. Ero tutta un’estate, sul lungomare, a ballare con lui. A me piacevano le musiche di Lucio Battisti, di Mina e di Claudio Villa.
Anche le mie onde scavalcavano gli scogli, non capaci di arginare il mare. Io, i cavalloni li ho sempre abbracciati. Sono stati sempre dei miei buoni amici. Altro sono i fulmini e i tuoni delle bufere. A sera, al Tamburo, godevo da lassù nel vedere i pescatori tirare le reti sulla franchigia. Poi scendevo e mi trovavo sempre tra i piedi di quei marinai che mi rimproveravano continuamente, ma non con brutte parole. Io non ci facevo tanto caso alle loro sfuriate e davo una mano anch’io a tirare le reti, facendo schizzare liberi, in mare, tanti pesci. Ho imparato, da questi abissali nuotatori, a non chiudere mai gli occhi nelle tenebre.
E’ vero, carissimo Erri De Luca, i pesci non chiudono gli occhi. Vestivo con pantaloni a zuava, con la canottiera bianca e con i piedi sempre a mollo. Tanti cristiani sono così imbrigliati nel sacro rituale, nelle processioni e nei cortei religiosi, tanto da perdere non solo la loro umanità ma il contenuto stesso dei santi e del vangelo. I palermitani poi non rinunciano alle loro dolci follie. Alla mattina mangiano pane con la meusa. Di pomeriggio, all’ombra dei ficus o dei portoni di casa, gustano la granita con la briosce.
Fanno l‘acchianata una volta all’anno, per amore di santa Rosalia e per le intramontabili tradizioni che, per spergiuro, non le abbandonano mai. Povere Madonne sulle loro spalle, piangono più di un’Addolorata. Misero Cristo morto, sotto la bara dei masticatori di panini con prosciutto e salame! San Sebastiano è stanco di essere infilzato dalle loro bestemmie. Il santo Padre non vuole più volare sul tappeto dalla Calabria in Sicilia, va oltre le nostre città occidentali. A Napoli san Gennaro non si liquefa più, dove sul lungomare si barattano persone come merce. La sacra manna a san Nicola di Bari si è già congelata da tempo. La manna a Pollina è una stecca di zucchero. Cristo mi ha tramutato la mia passione in un canto nuziale. Mi tocca arare strade polverose con l’affanno del mio respiro. Canto sempre, persino il silenzio si scandalizza del mio stonare, ma non troppo. Canto l’esaltazione della croce. Canto l’eucaristia. Canto il silenzio. Canto gli inni sacri che mi affascinavano da novizio.
Pie Pellicane, Jesu Domine,
Me immundum munda tuo sanguine.
Cuius una stilla salvum facere
Totum mundum quit ab omni scelere.
Io cammino con i piedi della Parola. Ecco perché sono giunto lontano dal tempo e da ogni tempio. Qui sulle rocce, dove i pini incarnano profondo le loro radici, Dio mi rivela il suo arcano silenzio. Sono divenuto carne di roccia. Intendo la sapienza umana futile dinanzi all’infinita misericordia del suo amore. Chi ama concepisce Cristo nel suo cuore. Egli m’innesta ali d’aquila, per spiccare il volo verso l’alto. Anche le rocce diventano ali di cielo. Il serpente antico non può ascendere sulle rocce dello spirito. Annaspa soltanto nelle bassezze e nel fango dei suoi peccati. Cristo è così umile da innalzarsi come serpente e attirare tutti a sé. Quanti misteri noi contempliamo, solo dopo che le aquile dall’alto ce li hanno seminati. Il giorno non ha segreti, come la notte che custodisce la luce delle stelle spente. Noi non nascondiamo il buio e le ingiustizie. Lo spirito è repellente al peccato. Noi non siamo delle stelle finte o finite. Io abito nelle fessure dei nidi del dolore e pigolo, e pigolo tanto il cielo che, come una madre, scende a nutrirmi di luce.
Io sono quella radice che partorirà l’infinito negli occhi affamati di Dio. Io ho fame e sete di giustizia. Cristo mi ha blindato con una griglia divina. Mi ha perforato il cuore con i suoi raggi di misericordia. Come regalo, mi ha abbracciato con il suo stesso costato. Non mi penetrano dentro le tenebre. Nel risorto, non sono una montagna da frantumarmi nel nulla. Lui, è la roccia, su cui ho fondato tutta la mia vita. Guarda mi disse, in terrazza, al tramonto un airone: “ Laggiù tutto s’infrange nel nulla di un sole che muore”. “Non vedo nulla, risposi”. “La luce e i colori del cielo, laggiù, si spengono!”. “E’ naturale, conclusi”. “Guardati dentro, poi riprese l’airone, il cuore non si ferma a palpitare, arde di più di ogni luce e di ogni dolore. L’uomo è fiato che non cessa di amare”. Il sole, discendendo nell’oltre, sussurrò all’airone: “ Domani sono il tuo mattino”. Io capii allora di essere un piccolo minuto raggio di un infinito ciclo d’amore. Non chiusi la notte, vegliando quella Stella del Risorto che non tramonta mai e che infiamma di pace ogni uomo. La sua nuova aurora mi ha reso invisibile al tempo e chiaro alla luce dell’eterno.
Paolo Turturro